Tradizione romanesca: rigatoni con la pajata
Ricetta di una famiglia romana da 10 generazioni
Si dice che non si è "romani de Roma" se non lo si è da almeno 7 generazioni. La famiglia da cui proviene questa ricetta lo è da 10: più tradizionale di così...! Vero anche che ogni ricetta tramandata ha mille sfumature a seconda della città, del rione e addirittura delle famiglie in cui la si prepara. Questa è la nostra, da sempre, e ve la proponiamo in tutta la sua meravigliosa semplicità, come tradizione popolana romanesca vuole, da tempi immemori, quando a disposizione si avevano le frattaglie del quinto quarto, il guanciale stagionato, il cacio pecorino delle campagne romane, per annaffiare, il vino dei Castelli e poco altro compresi i "pomi d'oro", già portati da Colombo ai Reali di Spagna...
Tempo di cottura: Almeno 90 min senza pentola a pressione.
Porzioni: 4
Ingredienti: Rigatoni, 320 g o più – Pajata o pagliata già pulita e legata, 700 g – Guanciale, 75 g – Vino bianco secco, 3/4 di bicchiere – Polpa fine di pomodoro, 2 barattoli da 400 g – Concentrato di pomodoro, 1 cucchiaio – Pecorino romano grattugiato, a piacere – Peperoncino a piacere – Olio extravergine d'oliva, quanto basta – Sale, qb
Fase 1
Materia prima: la pajata, rigorosamente di vitello da latte. Freschissima e già mondata e pronta "all'uso", ovvero ridotta a rotelle, o ciambelline legate in modo assolutamente naturale. Se così non fosse possiamo farlo da noi come ben spiegato (e illustrato) nella sezione "Le tecniche: Pajata, come pulirla e fare le rotelle senza refe" di Cuciniamoinsieme.it. Detto questo, cominciamo la preparazione tagliando a dadolini del buon guanciale possibilmente casareccio
Grazie alla "Tecnica: Pajata, come pulirla e fare le rotelle senza refe" di Cuciniamoinsieme.it abbiamo l'ingrediente principale pronto alla cottura. Adesso tagliamo a dadolini del buon guanciale |
Fase 2
In una pentola d'acciaio dal fondo pesante mettiamo ad imbiondire, e a sciogliere a fuoco dolce il guanciale in un po' di olio evo. Quindi aggiungiamo la pajata e saliamo con sale grosso; mescoliamo e lasciamo asciugare (ma non seccare) il liquido che la pajata avrà rilasciato grazie al sale. Prima che asciughi troppo sfumiamo col vino bianco secco; lasciamo evaporare sempre a fuoco dolce
Dopo imbiondito il guanciale, aggiungiamo la pajata e il sale grosso. Lasciamo asciugare il liquido che avrà rilasciato, quindi sfumiamo col vino e facciamo evaporare, sempre a fuoco dolce |
Fase 3
E' il momento di aggiungere il pomodoro. Versiamolo nella pentola, e aggiungiamo anche il peperoncino se piace. Allunghiamo con acqua calda e proseguiamo la cottura mescolando ogni tanto, ed aggiungendo ancora acqua se e quando serve, fino a che la pajata non sarà cotta. Quindi facciamo restringere il sugo secondo gusti e aggiustiamo di sale
Aggiungiamo il pomodoro ed eventualmente il peperoncino; allunghiamo con acqua calda e proseguiamo fino a cottura, mescolando ed aggiungendo ancora acqua quando serve. Alla fine aggiustiamo di sale |
Fase 4
Mettiamo a cuocere in acqua bollente salata i rigatoni, formato per eccellenza della tradizione per questo sugo. Scoliamoli al dente e versiamoli nella "mezzanella", ovvero la capiente ciotola dove una volta veniva mescolata la pasta (scolata al dente), al sugo e al cacio, prima di essere servita. Versiamo dunque ancora un po' di sugo nei piatti individuali o in quello da portata, e in questi distribuiamo la pasta parzialmente già condita; aggiungiamo su tutto un paio di mestolini o più di sugo, ancora formaggio, e sulla sommità una o due rotelle di pajata.
Altrove si direbbe: e Buon appetito. A Roma, davanti a un piatto del genere si diceva e si dice: "Panza mia, fatte capanna…!"
Mettiamo un po' di sugo nella "mezzanella" ed aggiungiamo la pasta al dente e un po di pecorino. Mescoliamo. Quindi versiamo ancora sugo nei piatti, distribuiamo in questi la pasta condita, ancora un po' di sugo e di cacio, e a trionfare su tutto un paio di rotelle di pajata: a Roma se magna così…! |
L'idea in più
Sappiamo di contravvenire alle migliori regole della tradizione se consigliamo di provare il parmigiano, o del grana, al posto del cacio pecorino, o metà cacio pecorino e metà grana. Si tratta di una preferenza assolutamente personale per "addolcire" la preparazione. Come si dice? De gustibus non est disputandum: sui gusti non si discute… Perdonateci la libertà, ma provare per credere
ParOlando in cucina: pomodori, ovvero i "Pomi d'oro"
Sembra fosse il 1492 quando Cristoforo Colombo, in un mercato inca di Santo Domingo si imbatté per la prima volta in un piccolo, sconosciuto "frutto" giallo dorato. Nella lingua dei locali, il popolo Inca, il suo nome era Xitomatl (pare da qui l'inglese Tomato, cioè pomodoro). Il grande navigatore ne portò alcune piantine ai Reali di Spagna, finanziatori dell'impresa. Qui, per le loro peculiarità vennero ribattezzati Pomi d'oro, (mele d'oro). A corte ne provarono la commestibilità, ma dell'intera pianta e non dei frutti. Ne fecero, pare, una zuppa, che naturalmente contenendo Solanina, alcaloide ad azione tossica, provocò malori nei commensali. La pianta dei pomi d'oro venne così relegata come tossica a ruoli meramente decorativi.
Da quel 1942 sarebbero dovuti trascorrere quasi 200 anni prima che i Pomi d'oro -nel frattempo sotto il sole del Mediterraneo divenuti da giallo dorato a rossi come li conosciamo oggi- venissero apprezzati come insostituibile alimento.
I "trucchi" del mestiere: clicca la ricetta
"Le Tecniche: Pajata, come pulirla e fare le rotelle senza refe", di Cuciniamoinsieme.it
Curiosità: la pajata
La “pajata” o pagliata è la prima parte dell’intestino tenue del vitello da latte, pulito ma non privato del "latte" (chimo). A Roma è sinonimo di cottura al sugo e di abbinamento con rigatoni e pecorino, ovvero quei famosi Rigatoni con la pajata celebrati da Alberto Sordi nel film Il Marchese del Grillo. Così vuole tradizione, anche se non è certo l'unico modo di cucinarla, nella capitale e nel Lazio, dove viene gustata anche semplicemente in umido, senza condirvi cioè la pasta. Oppure arrosto, cosparsa di strutto, cotta alla brace e condita con sale e pepe (modalità tradizionalmente molto diffusa fuori città); e al forno, con patate aromatizzate al rosmarino.
Vale la pena fare una divagazione per parlare anche degli intestini di maiale, o meglio particolari tratti che opportunamente puliti e lavorati nel Lazio e regioni limitrofe, a seconda delle varie aree, diventano budellacci, viarelli, busicchi o budellucci, tanto per citarne alcuni, fino ai budelluzzi della maremma toscana, di volta in volta conditi in vario modo come ad esempio con sale, pepe e fiori di finocchio selvatico. Il piccante è comun denominatore di questi "salumi" una volta serviti anche nelle osterie, che possono essere consumati, a seconda della preparazione, sia così semplicemente affettati, che fritti in olio o strutto o alla brace. Autentica leccornia artigianale ormai quasi del tutto scomparsa. Ancora nel Lazio questi budelli di maiale conciati con spezie varie e chiamati mazzi grassi, venivano consumati soprattutto nelle osterie o nelle fraschette dei Castelli romani: veniva posta una candela accesa al centro del tavolo e ogni commensale a turno passava il budello stagionato sulla candela quel tanto che bastava per far ammorbidire il grasso e prendere un sapore di affumicato (ecco perché sono conosciuti anche come "mazzi sfumati").
E restando sempre nel Lazio val la pena citare anche le pajatine di ovini (capra e pecora), che specialmente se da animali da latte vengono spesso cotte in padella alla "Cacciatora" con aglio, vino (o aceto), pepe e rosmarino.
Cosa beviamo
Lo stesso vino che avremo usato per sfumare. Oppure che sia bianco, rosso o rosato un buon vino corposo da pasto. E se proprio vogliamo farci una coccola, sposiamo questo piatto ad un Montefalco Doc o un Cesanese del Piglio Docg
Massime, citazioni, detti, proverbi e aforismi
"Magna quello che ciai davanti, e nun cercà si com'è fatto", perché "A magnà e a grattà, tutto sta a comincià…" (antichi proverbi popolari romaneschi)